I colori di Barbie

di Sofia Alessandra Leone

Il rosa è femminile. Fiocchi rosa sui portoni per le neonate annunciano la loro venuta al mondo, un benvenuto che determina già parte delle loro scelte future. I colori, infatti, non sono solo colori, ma sono immaginari, sono mondi colmi di significato e possono anche diventare le bandiere di alcuni stereotipi. Il rosa, lo sappiamo, è uno di questi “colori-simbolo” ma in realtà non lo è sempre stato. La coppia azzurro-rosa comincia a determinare simbolicamente i generi maschile e femminile verso metà Novecento per distinguere i prodotti sul mercato. Si tratta di una scelta arbitraria che si consolida nel tempo grazie anche a importanti prodotti di fama internazionale come Barbie

Se “we hate pink”, quindi, non è tanto per una questione di gusto, ma perché in esso riconosciamo un radicato ruolo di genere troppo vincolante. Da questo colore possiamo scegliere di prendere le distanze, rifiutarlo oppure riappropriarcene. Abbiamo citato Barbie qualche riga più in sù, lei che è sempre stata notoriamente rosa. Cosa succede oggi, nel nostro contesto socioculturale, a quella bambola di plastica (apparentemente) perfetta? Come si muove ora per integrare delle narrazioni più inclusive e andare oltre lo stereotipo di donna che lei stessa ha contribuito ad alimentare?

 
la prima Barbie doll 1959

la prima Barbie doll 1959

 

ICONA

Da piccola, ci ho giocato con Barbie e pure molto. La cosa che amavo di più fare era scambiare gli abiti di una con quelli dell’altra. Avevo almeno una trentina di modelli diversi e la possibilità di inventare storie mi sembrava davvero ampia, ma lo era davvero?

Se penso a Barbie la immagino con due luminosi occhi azzurri, i capelli liscissimi e biondissimi, la pelle chiara, le gambe lunghe e la vita stretta. E una volta il suo aspetto mi sembrava normale, anzi un modello a cui aspirare. Vedevo in quella di Barbie una vita desiderabile, senza imperfezioni e penso che molte persone potranno ritrovarsi nelle mie parole. Parliamo di uno stereotipo, uno di quelli così potenti da trasformarsi in un’icona. 


SCARTO TONALE

Barbie nasce nel 1959, negli Stati Uniti, da un’idea dall’imprenditrice Ruth Handler che faceva parte dei vertici della ormai storica Mattel. Ai tempi, i prodotti di punta dell’azienda erano dei bambolotti giocattolo, dei veri e propri “neonati di plastica” che offrivano alle bambine un solo gioco possibile, quello di interpretare il ruolo di una “madre in miniatura”. Ruth, durante un viaggio estivo in Europa, a Lucerna, conosce Lilli, una bambola dalle fattezze di una adulta. La bambola europea era stata creata per una ben congegnata strategia pubblicitaria da parte del giornale Bild Zeitung: Lilli, star delle “strisce osè” del quotidiano, si trasforma presto in un gadget destinato ad attrarre il pubblico maschile. Insomma, potremmo dire che Lilli e Barbie condividono le stesse sembianze, ma non il medesimo “carattere”. 

Da questo casuale incontro prende vita la nostra tanto familiare Barbie che verrà presentata il 9 marzo del 1959 alla Fiera del Giocattolo di New York. Questo è l’inizio della storia di una novità all’interno di un monotono mercato e del suo successo. Barbie diventa presto un vero e proprio modello di donna a cui far riferimento, una bambola attraverso la quale le bambine possono rispecchiarsi e sognare il loro futuro.


Come si presentava Barbie?

Era una donna alta, occhi azzurrissimi, alla moda, piena di abiti e di altrettanti impegni, magra e con la pelle bianca, più bianca del suo compagno Ken. Già dalla pittura greca e romana le donne erano rappresentate con la pelle molto chiara, soprattutto rispetto a quella degli uomini. Nel passato, quindi, mostrare una donna con la pelle chiara significava associarle un valore, una virtù sociale. Questo accadeva perché, spiega il visual designer Riccardo Falcinelli, le donne delle classi più elevate passavano molto tempo all’ombra della propria dimora e, di conseguenza, il loro incarnato manteneva un colorito molto chiaro. Questo era qualcosa a cui aspirare, un’ideale di bellezza

Questo tipo di rappresentazione viene poi confermata e amplificata dalla letteratura cavalleresca nella quale viene celebrata la bianchezza dei volti e delle mani delle belle castellane. Con questo viene sancito il vincolo tra pallore e regalità definitivamente ufficializzato, nel Novecento, grazie all’opera disneyana in particolare quella dei Classici Disney in cui di nuovo ricorrereva lo stesso scarto tonale tra la pelle dei principi e quella delle principesse. Ecco, Barbie si inserisce perfettamente in questa rappresentazione.


BIANCA È BELLA.

Siamo in America durante la lotta alla segregazione razziale degli anni ‘50. I coniugi Clark, Mamie e Kenneth, entrambi con laurea in Psicologia, stavano conducendo degli studi sull’identificazione razziale e sulle preferenze dei bambini neri. L’esperimento più famoso è il cosiddetto “Doll Test” durante il quale venne chiesto ad alcunə bambinə parte della comunità afroamericana di esprimere la loro preferenza in merito a due bambole di uguali fattezze, ma dal colore della pelle differente: una bianca e una nera.

Il risultato del test mostrò una netta preferenza per la bambola bianca e bionda: era più bella. In sostanza, lo studio ha mostrato come ci fosse uno stretto legame tra l’idea di inferiorità autopercepita dalla comunità nera e l’idea che coloro erano identificati come carnefici fossero superiori e quindi desiderabili. Il fatto che di considerare la bambola nera “inferiore”, “meno bella” e “cattiva” (per citare alcune delle considerazioni emerse dal test) mostra quanto gli standard e valori propri di chi detiene il potere sono stati interiorizzati e sono diventati la normalità.

Come sappiamo, la segregazione razziale americana ebbe fine negli anni ‘60 o almeno lo fece nelle sue forme pubbliche che vennero rese illegali. Il cambiamento sociale profondo è un processo lungo non senza ostacoli posti da chi detiene lo status quo: nel 2013 nasce #BlackLivesMatter il noto movimento internazionale contro la violenza sistemica e sistematica attuata verso le persone nere, il 25 maggio 2020 muore George Floyd: oggi non abbiamo ancora finito di lottare. Anche i brand sono chiamati a farlo con consapevolezza e onestà.


DIVERSA È MEGLIO

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L’8 febbraio 2016 il TIME dedica la sua copertina a Barbie in occasione di un importante cambiamento avvenuto in una delle sue principali linee di bambole, Barbie Fashionistas®: vengono introdotte delle bambole con nuove corporature e colori della pelle diverse da quella “bianca” della Barbie tradizionale.

Oggi la linea comprende 176 bambole con 9 body types, 35 skin tones e 94 hairstyles differenti. “We are all Barbie” dice la campagna. Con questa innovazione Barbie smette di essere solo alta, bianca, bionda e magra. Ed è vero che Mattel in passato aveva già proposto bambole diverse da quella tradizionale (nel 1968 appare Christie, la prima Barbie con la pelle scura), ma sono sempre stati casi isolati e non hanno fatto altro che sottolineare quanto fossero un’eccezione e non la normalità. Mai come in questo caso le bambole, benché diverse, sono state collocate tutte sullo stesso piano, per essere tutte Barbie

Il progetto è ad uno stadio iniziale: rappresentare le diversità che ci caratterizzano come umani è complesso e lo è soprattutto se questo è parte di un processo decostruzione di un’icona tanto cristallizzata come Barbie. Nonostante ciò, il cambiamento arriva anche in Italia e ne è un efficace esempio la collaborazione su Instagram con Vera Lab brand italiano di cosmesi creato dalla nota imprenditrice Estetista Cinica. Con la campagna “Puoi essere tutto ciò che desideri” (declinazione italiana di quell americana YouCanBeAnything lanciata già nel 2015) Barbie vuole riunire tanti modelli di donna per mostrare alle bambine tante altre possibilità di sognare quel loro futuro oltre il ruolo di genere che preclude loro molte strade.

L’estetista cinica

L’estetista cinica

Questi nuovi prodotti e queste campagne pubblicitarie non sono certamente sufficienti a combattere la persistenza di messaggi e comportamenti discriminatori. Non si sostituiscono per nulla alle scelte politiche e alle lotte sociali e non possono apportare grandi cambiamenti se non vengono inseriti in strategie aziendali più generali per sostenere la diversità e l’inclusione. Non si sostituiscono all’attivismo fatto dalle singole persone distaccate dalle logiche di mercato e profitto. 

Quello che però essi fanno è quello di contribuire ad una diversa e più inclusiva rappresentazione della realtà. Offrire alle nuove generazioni queste bambole significa comunicare loro che noi umani non siamo uguali e che le nostre diversità hanno pari dignità. Acquistare un prodotto anziché un altro è un’azione tutt’altro che neutra. E in questo, i brand e i media hanno un gran potere e relative responsabilità.

Fonti 

  • La mia tesi di laurea “Brand Activism. Il nuovo ruolo sociale delle marche. Approfondimento del caso Barbie”, marzo 2020