Si può essere femminista lavorando in azienda?

 

Le domande di una femminista manager ad una femminista radicale. 

di Rossella Forlè

La domanda nasce dai commenti che leggo sempre più spesso sulla relazione tra femminismo e capitalismo, tra femminismo e business. Si sente sempre più parlare di una malcelata intolleranza contro le femministe che lavorano in azienda, non parlo solo delle top manager ma anche delle tante, tantissime donne che lavorano come manager, senior level e entry level di un’azienda.

Davvero dobbiamo considerarci femministe di serie B? È quindi vero che se lavoriamo in un sistema capitalistico, sebbene ci scontriamo quotidianamente con il sessismo interno, la difficoltà di veder riconosciuto il proprio lavoro, la difficoltà di ricevere una promozione, lottando per la parità di salario, siamo pur sempre delle privilegiate?

Esiste quindi davvero un femminismo di serie A e di serie B? Possiamo davvero accusare tutte le donne che lavorano in azienda e sono attive sulla questione femminista di essere ancelle del capitalismo? 

La spinosa relazione tra femminismo e capitalismo è argomento di conversazione interna ed esterna al movimento a livello globale da anni.

Le prime risposte a queste domande arrivarono nel lontano 2013 da un articolo scritto da Nancy Fraser, femminista militante e docente di Politica e filosofia alla New School for Social Research di New York,  pubblicato sul quotidiano “The Guardian” nel 2013 e uscito in traduzione italiana su “MicroMega-on line” dello stesso anno.

In quell’articolo l’autrice sosteneva che il movimento per la liberazione della donna si stava “avviluppando” in una pretesa pericolosa con gli sforzi profusi per la costruzione di una società fondata sulla logica del libero mercato; ciò sarebbe avvenuto, secondo la Fraser, perché la pretesa del movimento femminista è stata strumentalizzato dall’ideologia neoliberista, in senso individualista. In tal modo, il movimento femminista sarebbe diventato “ancella del capitalismo contemporaneo”, abbandonando l’obiettivo dell’emancipazione di genere, attraverso la democrazia partecipativa e la solidarietà, per perseguire quello dell’autonomia individuale, fondata sull’aumento delle possibilità di carriera e sull’approfondimento meritocratico.

La Fraser sostiene che in conseguenza di ciò, il movimento femminista è approdato a una prospettiva di liberazione della donna compatibile con una trasformazione della società in senso neoliberista-individualista, non perché le donne siano state “vittime passive di seduzioni neoliberiste”, ma perché, con la tendenza a perseguire il pari diritto di accedere al mercato del lavoro, hanno direttamente contribuito a consolidare l’egemonia dell’ideologia neoliberista, le cui conseguenze si sono direttamente collegate allo smarrimento del ruolo sociale del genere donna.

La sua analisi è diventata anche un Manifesto “Femminismo per il 99%” scritto con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya e pubblicato nel 2019, in cui viene radicalizzata la critica al movimento femminista di ispirazione neoliberista. Secondo le autrici, concentrandosi sulla strategia del “farsi avanti”, tale movimento si è ridotto a sostenere “un esiguo numero di donne privilegiate”, per consentir loro “di arrampicarsi sulla scala sociale”, allo scopo di fare carriera, “proponendo una visione dell’uguaglianza basata sul mercato”; nonostante condanni la discriminazione e difenda la libertà di scelta, il movimento ha smarrito la rivendicazione più importante: quella di rimuovere i vincoli economici e sociali che rendono impossibile, per la maggioranza delle donne, una reale liberazione dalle molte discriminazioni che ne condizionano l’esistenza.

In tutto questo però dove si collocano quelle di noi che hanno voluto fare carriera e hanno voluto seguire i loro obiettivi? Quelle di noi che non hanno voglia di mettere su famiglia ma hanno voglia di realizzarsi solo o anche professionalmente? Possiamo davvero condannare le donne che con fatica e impegno, senza privilegi di famiglia e Università privata, sono arrivate a coprire ruoli d’eccezione? Possiamo condannare le tante, tantissime impreditrici che hanno deciso di sottrarsi alle politiche della corporate, per creare il loro business? Non si parla solo delle top manager ma di tutte le professioniste delle scienziate, ingegnere,  mediche, architette. Siamo tutte parte del sistema capitalistico.

Le domande sono tante e questo mio post vuole aprire una conversazione che sia utile a tutte. È il femminismo radicale la soluzione? Quante di noi possono permettersi il lusso di rifiutare il lavoro in corporate, per diventare una femminista perfetta, ma soprattutto quante di noi vogliono farlo? Possiamo definirci femministe anche se lavoriamo in un’azienda? 

Sarà uscendo dal sistema capitalistico che potremmo davvero approdare alla liberazione femminista o faremmo solo un favore ad una classe dirigente ancora prevalentemente maschile, “levandoci dalle scatole” e continuando a protestare solo nelle piazze?